Principi fondamentali

Un simpatico repertorio di risorse per la didattica

Articolo 1

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Cosa significa?

  • Repubblica: forma di Stato in cui la sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso i suoi rappresentanti eletti.
  • Democratica: forma di governo in cui il potere appartiene al popolo e viene esercitato in modo egualitario.
  • Fondata sul lavoro: il lavoro è considerato il fondamento della società italiana, perché è il mezzo con cui le persone si guadagnano da vivere e contribuiscono allo sviluppo del paese. Il lavoro è anche fonte di identità e realizzazione personale (sono un meccanico, sono un architetto...) ed è un valore sociale che contribuisce alla coesione e al progresso della comunità.

 

Articolo 2

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Che cosa significa? Con questo articolo la Costituzione stabilisce l’esistenza di diritti che in nessun caso possono essere negati da persone o istituzioni. Quali diritti sono? Quelli espressamente indicati negli articoli della Carta, nonché quelli naturali e preesistenti alla formazione dello Stato, ossia diritti di cui un uomo gode in quanto uomo (il diritto di vivere, di parlare, di procreare…), indipendentemente da dove vive, dalla classe sociale, dal sesso ecc. Tali diritti non sono annullati dal fatto che l’uomo partecipa ad associazioni.
L’articolo secondo associa il rispetto dei diritti all’adempimento dei doveri, come chiave per il mantenimento della società. Anche in questo caso i doveri intesi dai Costituenti comprendevano quelli indicati dalla Carta e quelli cosiddetti naturali (rispetto della vita dell’altro, delle libertà altrui…) che, come i diritti, prescindono da luogo, censo, età, sesso ecc.

Ma perché...? Diritti e doveri in questo articolo vanno di pari passo. Immaginate di vivere in una società di soli diritti e senza doveri: in poco tempo la situazione sarebbe ingestibile perché ciascuno sosterrebbe le proprie ragioni a danno degli altri. Viceversa una società di soli doveri e senza diritti limiterebbe sensibilmente la possibilità di ciascuno di essere se stesso e sviluppare la propria personalità e le proprie potenzialità. Ma i doveri sono espressi in questo articolo come forma di solidarietà: essi cioè vengono intesi come una condizione necessaria per il mantenimento di una società solidale. La Costituzione si esprime in una forma generale e un po’ astratta, ma intende in realtà comportamenti molto concreti. Pagare le tasse, per esempio, fa parte di questi doveri; ci si può lamentare del peso delle tasse e dell’uso che se ne fa, ma senza di esse non sarebbe possibile la sopravvivenza dello Stato e dei suoi servizi e la società piomberebbe nel caos.

Articolo 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Che cosa significa? L’articolo assume il principio di uguaglianza tra tutti i cittadini come un diritto fondamentale. L’uguaglianza è innanzitutto un’uguaglianza formale, cioè l’uguaglianza di fronte alla legge: per esempio che un cittadino sia cattolico, ebreo, musulmano o ateo, per la legge non cambia nulla e i suoi diritti restano i medesimi. L’art. 3 indica quali sono le differenze che non incidono sull’uguaglianza perché ciascuna di esse è stata in passato una ragione di discriminazione: basti pensare al fatto che le donne per secoli non hanno avuto gli stessi diritti degli uomini.
La seconda parte dell’articolo, però, assegna alla Repubblica il compito di favorire l’uguaglianza sostanziale, ossia l’uguaglianza effettiva: la povertà, la provenienza da un ambiente degradato, la scarsa istruzione ecc. sono fattori che possono determinare tra i cittadini una disuguaglianza tale da impedire l’esercizio dei diritti fondamentali.

Ma perché...? Il principio di uguaglianza è molto radicato nella nostra società, anche se periodicamente episodi di razzismo e di intolleranza sembrano metterlo in discussione. Secondo questo principio gli uomini sono uguali per natura, non nel senso che sono identici come se fossero fotocopie o che devono diventarlo, ma nel senso che hanno gli stessi diritti. Razza, sesso, opinioni politiche ecc. determinano importanti differenze tra i cittadini, ma non tali da rendere alcuni superiori e altri inferiori dal punto di vista dei diritti. Fanno parte delle loro caratteristiche naturali (come il sesso), culturali (come la lingua) o personali (come le opinioni politiche). Conoscere e frequentare persone diverse da noi arricchisce la nostra conoscenza del mondo, aiuta a modificare o a consolidare le nostre opinioni. In una società democratica la diversità non è solo un dato di fatto, ma una caratteristica essenziale, senza la quale la democrazia si trasformerebbe (come è avvenuto in passato) in un regime.

Articolo 4

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Che cosa significa? Al pari di altri articoli, anche l’art. 4 sottolinea l’importanza del lavoro. Il diritto al lavoro è qui inteso come principio e non come norma giuridica: detto in altri termini, lo Stato ha il dovere di sviluppare le condizioni idonee a che ciascuno possa lavorare, non il dovere di trovare un lavoro a chi ne è privo. Da questo punto di vista il diritto al lavoro è come il diritto alla salute: tutti hanno il diritto di essere curati, ma nessuno può pretendere che lo Stato ripristini una condizione di salute nel malato, perché un potere di questo genere non appartiene allo Stato.
Il diritto morale del singolo ad avere un lavoro va di pari passo con il dovere a contribuire al progresso dell’intera società. Come in altri articoli, anche in questo la dimensione individuale non annulla quella collettiva ma le due dimensioni si integrano, nella convinzione che tra il singolo e la collettività esista un legame inscindibile.

Ma perché...? Il lavoro è il mezzo con il quale le persone si sostengono e, soprattutto in periodi di crisi economica e di aumento della disoccupazione, il diritto al lavoro appare quanto mai importante. Tale diritto non equivale all’obbligo da parte dello Stato di creare e trovare un lavoro a chi lo sta cercando: se fosse così, lo Stato dovrebbe impiegare in modo improduttivo le proprie risorse, con la conseguenza che in breve tempo i disoccupati tornerebbero a essere tali e lo Stato avrebbe sperperato inutilmente le proprie risorse.
Il diritto al lavoro è stato spesso interpretato come difesa del posto di lavoro: un lavoratore non può essere licenziato senza giusta causa. Eppure proprio questo aspetto viene oggi da molti messo in discussione: una maggiore libertà di licenziare, ritengono alcuni sostenitori del libero mercato, indurrebbe le imprese a investire di più, nella consapevolezza di poter licenziare i dipendenti in momenti di crisi. Per altri invece questa maggior libertà di licenziare renderebbe solo più drammatica la condizione di vita dei lavoratori dipendenti.

Articolo 5

La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

Che cosa significa? Dire che l’Italia è una e indivisibile significa affermare l’indivisibilità dello Stato italiano in più Stati e quindi l’illegalità di ogni tentativo di rendere indipendente una parte dello Stato. Nello stesso tempo, però, questo articolo sottolinea l’importanza del decentramento amministrativo e dell’autonomia. Ciò equivale a dire che l’Italia è uno Stato unitario, ma non accentrato dal punto di vista amministrativo, e nel quale i cosiddetti enti locali, cioè le Regioni, le Province e i Comuni, svolgono un ruolo fondamentale. La valorizzazione di questi enti non ha solo uno scopo di efficacia amministrativa, ma deve consentire una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita politica. All’epoca della Costituzione l’istituzione delle Regioni, che pure venne completata solo negli anni Settanta, aveva anche lo scopo di contrastare i movimenti antiunitari (come quelli che, all’indomani della Seconda guerra mondiale, si svilupparono in Sardegna e in Sicilia).

Ma perché...? La struttura dello Stato italiano, unitario ma con autonomie locali, è stata al centro di un vasto dibattito negli ultimi vent’anni. Più volte è stata proposta la trasformazione dell’Italia in una Repubblica federale (come lo sono gli Stati Uniti, la Svizzera e la Germania). L'idea di un’Italia federale era stata proposta anche in epoca risorgimentale, ma era stata accantonata subito dopo l’Unità perché pareva mettere a rischio il processo di unificazione ancora in corso.
In una Repubblica federale i singoli Stati (o Cantoni, come in Svizzera) che compongono la federazione detengono maggiori poteri di governo e di spesa, ed esiste una dinamica politica che spesso contrappone Stati e Governo centrale. Inoltre, a seconda delle federazioni, i governi centrali detengono poteri più o meno ampi e le differenze tra i singoli Stati possono essere assai ampie.
L’effetto di queste discussioni in Italia non è stato però la trasformazione dello Stato in una Repubblica federale, ma il conferimento di un maggior potere decisionale alle Regioni.

Articolo 6

La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.

Che cosa significa? Questo sintetico articolo si ispira a un significativo principio di rispetto della lingua parlata da una comunità e assume come dato di fatto che in Italia esistono minoranze linguistiche, ossia gruppi che non parlano l’italiano come prima lingua. Lo scopo di questo articolo era evitare che la maggioranza nazionale potesse limitare i diritti delle minoranze linguistiche in quelle regioni dove queste avevano tradizioni culturali e linguistiche (per esempio gli altoatesini di lingua tedesca, i francofoni in Valle d’Aosta o gli sloveni in Friuli-Venezia Giulia).
L’art. 6 trova applicazione soprattutto negli ordinamenti delle Regioni a statuto speciale (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia e Sicilia) che tutelano le minoranze attraverso il bilinguismo (la possibilità di utilizzare in maniera paritaria, anche nelle scuole, l’italiano e la lingua madre) e il separatismo linguistico: quest’ultimo modello, in vigore in Trentino-Alto Adige e nelle province di Trieste e Gorizia, tende a separare i gruppi linguistici, per esempio attribuendo a ciascuno proprie scuole dove l’idioma dell’altro è studiato come “seconda lingua”.

Ma perché...? Rispettare la lingua di una comunità è un atto di alto valore civile, perché significa rispettare quella stessa comunità. La lingua madre non è un elemento accessorio o secondario dell’identità personale e collettiva, ma è radicata profondamente nella mente di una persona ed è uno specchio della cultura che l’ha generata. Per questa ragione la riduzione del numero di lingue esistenti sulla Terra, provocata dalla globalizzazione, viene oggi considerata una forma di impoverimento.
In Italia la legge tutela molte minoranze. Nel 1999 è stata approvata la legge n. 482 per tutelare le minoranze linguistiche (albanesi, altoatesini, carinziani, carnici, catalani, croati, franco-provenzali, francofoni, friulani, greci, ladini, occitani, sardi, sloveni, rom e sinti) e per favorire l’utilizzo e la conservazione dei loro idiomi; in alcuni casi si tratta di gruppi linguistici poco numerosi ma ritenuti significativi da un punto di vista culturale.

Articolo 7

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.

Che cosa significa? Lo Stato italiano è laico, ossia non professa una particolare religione né privilegia una religione rispetto alle altre. In realtà per decenni, fino al 1984, il cattolicesimo è rimasto la religione di Stato. Per ragioni storiche e culturali (la presenza del papa a Roma; il forte radicamento del cattolicesimo presso la popolazione; la nascita dell’Italia, che ha comportato la fine dello Stato pontificio), era impossibile non dedicare un passaggio specifico della Costituzione al rapporto tra Stato e Chiesa cattolica.
L’art. 7 stabilisce la piena indipendenza e sovranità dello Stato dalla Chiesa e viceversa. La regolamentazione dettagliata dei rapporti passa per una strada esterna alla Costituzione, quella di intese concordate. La prima di tali intese è rappresentata dai Patti Lateranensi, firmati l’11 febbraio 1929 dallo Stato fascista e dalla Santa Sede, e successivamente rivisti nel 1984.

Ma perché...? La presenza del cattolicesimo nella società italiana è molto radicata. Spesso esponenti della Chiesa cattolica si pronunciano sui fatti di cronaca o sulle scelte politiche. Alcune forze politiche, in passato e ancora oggi, fanno della Chiesa un loro punto di riferimento. È spontaneo il quesito se tutto ciò rappresenti o no una forma di ingerenza della Chiesa cattolica, che contravviene all’art. 7. Si tratta di una domanda alla quale è molto difficile rispondere in modo definitivo: proprio per la libertà di culto presente in Italia, è legittimo richiamarsi ai valori espressi da una fede religiosa; tuttavia, nello stesso tempo, coloro che appartengono alle alte gerarchie della Chiesa cattolica sono membri non solo di un ente con finalità spirituali ma anche di un vero e proprio Stato, per quanto di dimensioni minuscole (il Vaticano). Per queste ragioni alcuni commentatori considerano le prese di posizione delle gerarchie cattoliche in merito a questioni inerenti la vita politica italiana come “interferenze non giuridicamente perseguibili”; altri, invece, “questioni di diritto internazionale” da risolvere per via diplomatica.

Articolo 8

Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

Che cosa significa? Insieme all’art. 7, questo articolo regola la professione della religione in Italia; mentre tuttavia l’art. 7 si riferisce al solo cattolicesimo, data la sua rilevanza nella storia e nella società italiana, l’art. 8 si riferisce a tutte le altre confessioni ed esprime il principio del pluralismo religioso. In realtà, fino a quando nel 1984 il cattolicesimo non ha cessato di essere religione di Stato, questo principio era negato nei fatti.
Occorre prestare attenzione alla formulazione adottata dall’articolo: le religioni sono egualmente libere, a patto di rispettare la legge italiana, ma sono necessarie intese per regolare i loro rapporti con lo Stato. Lo Stato non riconosce quindi religioni “personali” o di gruppi che non dialogano con lo Stato. Sul contenuto dell’art. 8 si è espressa però la Corte costituzionale nel 1993: non è legittimo discriminare una religione, perché tutte le religioni rappresentano i bisogni religiosi di chi le pratica.

Ma perché...? Sulla base di questo articolo tutte le confessioni religiose possono essere professate in Italia. L’unico limite è rappresentato dal rispetto della legge italiana: quindi, per ipotesi, gli Aztechi, un’antica popolazione dell’America centrale, non potrebbero celebrare i loro riti religiosi perché essi implicano i sacrifici umani. Tuttavia, anche all’interno di questo vincolo, l’ordinamento italiano non ha ancora eliminato le disparità, perché distingue gerarchicamente fra la Chiesa cattolica, le confessioni dotate di intesa (Tavola valdese, Unione comunità ebraiche…), le confessioni riconosciute dalla legislazione sui culti ammessi (lo Stato riconosce circa 100 culti quali, per esempio, la Comunità greco-orientale ortodossa, la Comunità di fedeli di rito armeno gregoriano, la Chiesa evangelica luterana…) e quelle prive di riconoscimento (Chiese di Cristo, Chiesa cristiana millenarista, Chiesa cattolica apostolica…).
Ma è legittimo non riconoscere alcuni culti? In una società multietnica e multiculturale, come è oggi la nostra, il problema è molto più ampio di quanto non fosse al momento del varo della Costituzione, quando in Italia erano praticati pochissimi culti religiosi al di fuori del cattolicesimo.

Articolo 9

La Repubblica promuove lo sviluppo e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Che cosa significa? Scienza, tecnica, paesaggio, reperti storici e opere d’arte sono indicati da questo articolo come beni da tutelare. Tuttavia, benché siano tutti manifestazione della cultura, questo articolo li affronta da due prospettive differenti.
Promuovere la scienza e la tecnica significa concedere la libertà di ricerca e di divulgazione; questa parte dell’articolo esprime allora l’esigenza di difendere sia ciò che costituisce una conquista della creatività umana, sia la libertà di parola. Tutelare il paesaggio e il patrimonio storico significa invece riconoscere e difendere la particolare ricchezza artistica e ambientale italiana.

Ma perché...? Gli scempi ambientali che hanno caratterizzato l’edilizia italiana per decenni, l’incuria mostrata verso i reperti artistici e le opere dei musei sono un chiaro esempio di come una parte di questo articolo sia stata disattesa, mentre hanno preso il sopravvento gli interessi economici e il disinteresse verso i beni culturali e ambientali.
Questa tendenza si è invertita man mano che sono sorti una maggiore sensibilità verso l’ambiente e un interesse per l’arte non solo come bene in sé, ma anche come elemento fondamentale per il turismo. È iniziato allora l’abbattimento dei cosiddetti ecomostri, ossia costruzioni – spesso abusive – che deturpano il paesaggio, e la valorizzazione delle ricchezze artistiche italiane.
Quando si parla di paesaggio, però, non si intende solo un particolare ambiente caratterizzato da un eccezionale grado di bellezza, ma l’ambiente in cui l’uomo vive e lavora. La protezione dell’ambiente non deve perseguire finalità astratte ma deve esprimere, secondo una sentenza della Corte costituzionale, “l’esigenza di un habitat naturale nel quale l’uomo vive e agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini”.

Articolo 10

L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.

Che cosa significa? Questo lungo articolo stabilisce innanzitutto il rapporto tra l’ordinamento giuridico italiano e il diritto internazionale. Le norme generali del diritto internazionale, che regolano i rapporti degli Stati tra loro, entrano a far parte dell’ordinamento italiano.
I successivi passaggi si concentrano invece sulla condizione dello straniero in Italia, in una situazione sia di normalità sia di eccezionalità: nel primo caso si intende la situazione di uno straniero che si trova in Italia per lavoro, turismo, scelta di vita ecc.; nel secondo, invece, la drammatica situazione di chi si trova in Italia per sfuggire alla mancanza di libertà del suo Paese di origine, o di chi si rifugia in Italia perché nel suo Paese è accusato di reati politici (come accade a chi in Paesi non democratici ha criticato il Governo, promosso manifestazioni, scoperto scandali politici…) o non può esercitare le libertà democratiche. In questo caso la Costituzione accorda allo straniero, a certe condizioni di legge, il diritto di asilo, ossia di una “sicura” ospitalità.

Ma perché...? Il diritto d’asilo rappresenta un tratto importante delle democrazie: tramite esso si afferma che una serie di valori sono così alti e importanti da permettere, a chi non può esercitarli, di rifugiarsi in Italia. Quando però si tratta di capire chi è minacciato nel suo Paese e chi ha diritto all’asilo politico, la questione diventa molto più complessa. Nel mondo esistono infatti molti Paesi nei quali le libertà democratiche caratteristiche dell’Occidente non vengono rispettate. Spesso la fuga da questi Paesi non avviene però per ragioni di democrazia ma è dettata da bisogni materiali, dalla povertà e dal sogno di una vita migliore. Proprio perché queste due dimensioni si sovrappongono, spesso lo Stato è restio a concedere il diritto d’asilo.
A proposito della nozione di “straniero”, è importante una precisazione. Quando la Costituzione è stata varata non esisteva ancora l’Unione Europea. Per questo l’ordinamento italiano attuale prevede due categorie di cittadini stranieri: quelli provenienti da un Paese dell’Unione Europea (la cui tutela è simile a quella dei cittadini italiani) e quelli provenienti da un Paese extra-europeo (per i quali sono previste restrizioni circa l’ingresso e la permanenza nel territorio della Repubblica).

Articolo 11

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Che cosa significa? Con questo articolo l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa, non di difesa: se attaccata, l’Italia può rispondere con le armi. Al rifiuto della guerra si associa la disponibilità a limitare la propria sovranità, cioè il proprio autogoverno, a favore di organizzazioni che promuovano la pace, come l’Organizzazione delle Nazioni Unite (O.N.U.). La pace è quindi posta come un bene supremo, che motiva l’adesione a organizzazioni internazionali e le conseguenti limitazioni di sovranità dell’Italia.
In un secondo tempo, l’interpretazione di questo articolo è stata estesa per conferire una base costituzionale alla partecipazione italiana al processo di costruzione europea: l’adesione dell’Italia alla Comunità Economica Europea e, successivamente, all’Unione Europea.

Ma perché...? Da anni l’Italia partecipa a missioni di pace internazionale, decise dall’O.N.U., mediante il proprio esercito, che è coinvolto anche in azioni di guerra. È legittimo chiedersi se tale partecipazione sia lecita, dato che l’Italia ripudia la guerra. L’invio di soldati sotto le bandiere dell’O.N.U., che implica l’uso della forza armata con modalità belliche, ha suscitato un forte dibattito: secondo una corrente di pensiero, questi interventi sono privi della necessaria legittimità costituzionale; altri studiosi, invece, ritengono ammissibile la partecipazione italiana sulla base di una consuetudine di diritto internazionale che impone la tutela dei diritti umani. Detto in altri termini, partecipare a missioni che contemplano l’uso delle armi sarebbe in questo caso uno strumento per affermare la pace e i diritti umani; di fatto, non si tratta di partecipare a una guerra per ampliare il territorio italiano, ma di inviare i propri soldati in missioni internazionali allo scopo di difendere valori ritenuti universali.

Articolo 12

La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.

Che cosa significa? Questo articolo codifica costituzionalmente la foggia della bandiera della Repubblica italiana che, in realtà, era già stata stabilita nel 1946, con un decreto legislativo presidenziale. Nel corso della discussione fu sollevata una sola questione, che riguardava l’eventuale possibilità di apporre uno stemma nella banda centrale bianca della bandiera; così accadeva ad esempio per il precedente “tricolore”, approvato nel 1925 in epoca fascista, che aveva al centro lo stemma della casa regnante. L’Assemblea costituente, però, decise per il “tricolore puro e schietto”.
Le origini del “tricolore” risalgono alla Repubblica cispadana: fu nel 1797 che il Parlamento decise, come colori della bandiera, il verde, il bianco e il rosso. Il “tricolore”, con al centro lo “scudo di Savoia”, ricomparve durante la Prima guerra d’indipendenza (1848-49); nel 1861, proclamato il Regno d’Italia, la bandiera prescelta fu proprio il “tricolore” di tale guerra.

Ma perché...? La bandiera è il simbolo della Repubblica italiana e per questa ragione il suo uso e la sua cura sono tutelati e protetti dalla legge. In particolare è previsto il reato di vilipendio alla bandiera, che sanziona tutti gli atti finalizzati alla distruzione o al danneggiamento della bandiera: è vietato, ad esempio, bruciare la bandiera durante una manifestazione. Alla base di questo divieto vi è il dovere di rispettare i simboli dello Stato. In altri Paesi invece prevale il diritto a esprimere la propria opinione: è considerato legittimo danneggiare o distruggere la bandiera per manifestare il proprio dissenso verso la politica del Governo. Ci si può quindi chiedere se, in questo modo, in Italia non venga limitata la libertà di espressione; va tuttavia notato che è legittimo criticare le scelte del Governo apertamente: solo questo specifico modo viene considerato illegale.